Dialoghi – Vivere soli, in Cina

Febbraio 2025

Sempre più cinesi vivono da soli. Lo dicono i dati, a cui Pechino guarda con una certa preoccupazione, e lo dimostra il mercato, che da anni si sta adattando con prodotti e servizi destinati specificatamente ai single. Bambini, adulti o anziani, la solitudine è per decine di milioni di cinesi una condizione di vita oggettiva, non per forza negativa. “Dialoghi: Confucio e China Files” è una rubrica in collaborazione tra China Files e l’Istituto Confucio dell’Università degli Studi di Milano.

di Francesco Mattogno

Secondo un sondaggio condotto alla fine del 2019 da Ipsos, il 47% dei cinesi intervistati riteneva «probabile» l’eventualità di trascorrere la maggior parte del proprio tempo in solitudine (gūdān, 孤单) nel corso del 2020. Il dato è inferiore solo alla percezione dei cittadini turchi (57%) e indiani (50%), ed è molto più alto della media del 33% registrata considerando i pareri delle oltre 22 mila persone, provenienti da altri 31 paesi, che hanno partecipato al sondaggio. 

Escludendo la possibilità che gli intervistati possano aver previsto lo scoppio della pandemia da Covid, con le conseguenti restrizioni e quarantene (questo sì, improbabile), la risposta cinese alla domanda di Ipsos conferma una tendenza che chi si occupa di Cina osserva già da anni, se non decenni: i cinesi sono sempre più soli. 

Come tutte le generalizzazioni anche questa ha le sue eccezioni e lacune, e va considerato che quello della solitudine – rurale o metropolitana – è un tema globale, comune alla grande maggioranza delle società urbanizzate e, soprattutto, digitalizzate. È vero però che in Cina il fenomeno ha assunto una portata enorme, anche per questioni banalmente numeriche, il che rende la crescente solitudine dei cinesi difficile da ignorare da qualunque prospettiva la si guardi: sociale, politica, economica, medica.

Pensare alla Repubblica popolare di oggi come un paese di persone tendenzialmente sole stride poi con l’immaginario della Cina maoista fatta di comuni popolari, unità produttive, famiglie allargate ed eserciti di lavoratori in uniforme. Come descritto da Gerard Lemos in un articolo uscito per la BBC nel 2012, fino agli anni Settanta per una persona cinese era più probabile vivere in case sovraffollate e scomode, una condizione che obbligava operai e contadini a passare gran parte del proprio scarso tempo libero negli spazi pubblici, come piazze e strade, dove potevano fare esercizio, giocare a weiqi (abbiamo dedicato una puntata di Dialoghi proprio al gioco da tavolo, si legge qui) e più in generale costruire un forte senso di comunità.

La trasformazione economica portata dal socialismo con caratteristiche cinesi di Deng Xiaoping ha progressivamente svuotato le zone rurali e le piccole città, a partire soprattutto dagli anni Novanta, concentrando decine di milioni di individui nei nuovi centri urbani e rompendo così, in molti casi, la tradizione confuciana fatta di stretti legami intergenerazionali. I figli (quasi sempre unici, dal 1979) sono diventati migranti interni e i genitori, “lasciati indietro” come molti dei loro nipoti, sono invecchiati soli. 

Va detto che i valori confuciani erano già stati pesantemente indeboliti nella prima metà del Novecento dalla rivoluzione repubblicana (prima) e maoista (poi). L’arrivo del capitalismo con la sua intrinseca mentalità individualista, tradotta in Cina nel motto denghista «arricchirsi è glorioso», ha fatto il resto e generato come prodotto collaterale quella che nel paese, in particolare negli ambienti accademici e giornalistici, viene definita la kongchao qingnian, la “gioventù dal nido vuoto” (kōngcháo qīngnián, 空巢青年). 

Come ha scritto Gabriele Battaglia nel 2016, anche su China Files, con il termine ci si riferisce generalmente «ai cinesi nati negli anni Novanta che cercano fortuna in città e finiscono per vivere in solitudine», senza sposarsi, senza amici e a volte senza mantenere contatti, se non sporadici, con la propria famiglia d’origine. E quindi senza un luogo che possano definire “casa”. Per esempio Cui Jie, una ragazza single che vive a Pechino da sei anni, ha detto l’anno scorso al Quotidiano dei Lavoratori che «compra cibo d’asporto per tre pasti al giorno, fa la spesa su Taobao e conosce il corriere meglio dei suoi vicini». I suoi unici amici sono quelli d’infanzia: «Ci sentiamo la sera per videogiocare insieme o semplicemente per tenerci compagnia», ha concluso.

Nonostante l’espressione “nido vuoto” abbia un significato di per sé negativo, in Cina non esiste una valutazione univoca del fenomeno, anzi. Se da un lato professori ed esperti tendono a considerarlo un problema su più livelli (sociale, demografico, di salute mentale), non tutti i giovani single e soli lo sono contro la loro volontà. La stessa Cui Jie dice di essere ora molto più forte e indipendente che in passato, pur manifestando la mancanza di canali sociali per conoscere amici o eventuali partner, ma più in generale la “vita solitaria” (gèrén shēnghuó,个人生活) è diventata una scelta per molti cinesi che hanno intenzione di coniugare il lavoro alla cura di se stessi, senza dover rispondere ai tradizionali obblighi familiari. 

È una condizione che vale soprattutto per le giovani donne cinesi. Secondo Jiang Yalin, autrice della newsletter Following The Yuan, «la maggior parte degli uomini cinesi non ha motivo di rifuggire dal matrimonio, visto che i valori della società restano a loro favore. In una società patriarcale come quella cinese ci si aspettava che le donne avessero figli, li allevassero, si occupassero delle faccende domestiche e tollerassero la disuguaglianza di genere». Oggi, invece, sempre più donne cinesi hanno un proprio reddito e una loro carriera, e non vedono la possibilità di trovare un partner come una necessità primaria.

Stando ai dati del settimo censimento della popolazione cinese, rilasciati nel 2021, in Cina ci sono almeno 200 milioni di adulti single e 125 milioni di famiglie composte da un solo individuo. Si tratta del 25% del totale delle famiglie cinesi, un valore molto più alto rispetto a quelli registrati in passato (le famiglie di single erano l’8,3% nel 2000 e il 13,9% nel 2010). Secondo le proiezioni, in termini assoluti il dato dovrebbe crescere a 150-200 milioni di famiglie composte da single entro il 2030, superando il 30% del totale. La prospettiva preoccupa molto il governo cinese, che sta cercando da anni di invertire il calo demografico con incentivi, sussidi e investimenti nei settori legati alla natalità. Per ora senza grandi risultati.

Al di là dei timori di Pechino, negli ultimi anni è stata prodotta varia letteratura scientifica sulla vita solitaria dei cinesi, soprattutto nel ramo della psicologia. Diversi studi hanno collegato solitudine e malattie croniche, ansia, depressione, disagio sociale e in alcuni casi aggressività. Vale sia per le persone più anziane (oltre il 30% degli over 55 cinesi dice di essersi sentito solo negli ultimi anni) che per adulti e bambini

L’attenzione della comunità scientifica riguardo la solitudine dei cinesi si è sviluppata a partire dagli anni Ottanta, specialmente in rapporto all’introduzione della politica del figlio unico, ma secondo una ricerca del 2022 la correlazione tra le due cose non è poi così scontata: non è detto che la generazione di figli unici sia più sola perché fatta di figli unici, insomma. Entrano in gioco piuttosto altri fattori, come quelli tecnologici, culturali, sociali e di genere. E mentre gli studiosi cercano una spiegazione del fenomeno e delle sue conseguenze, agli investitori interessa poco, e il mercato si adatta. 

Da anni si è ormai sviluppata la cosiddetta “economia della solitudine”, con prodotti e servizi pensati appositamente per i single, dalle mini-cabine del karaoke ai chatbot a intelligenza artificiale generativa che simulano le risposte di personaggi di fantasia, amici o amanti, passando per chi trova lavoro come pei liao (péiliáo, 陪聊), cioè compagno o compagna di conversazione. Si tratta di persone che vengono pagate dai single, tendenzialmente a ore, per dare loro consigli, supporto o semplicemente per chattare. Delle sorta di amici di penna virtuali, però a libro paga.

Insieme al numero di persone che vivono sole è aumentato anche quello degli animali domestici, con annesse fortune per le aziende del settore, ed è sui giovani single che fanno affari anche le industrie dei videogiochi, della realtà virtuale e della robotica, tra le altre. A ciò si aggiunge anche il fiorente settore della cura degli anziani, non solo a scopo di lucro: sono sempre di più le associazioni che si occupano di organizzare giochi e attività di gruppoall’interno delle strutture per anziani così da migliorare la loro salute mentale, prevenendo inoltre l’avanzata di malattie come l’Alzheimer.

«Si sentono soli a casa, senza nessuno», ha detto a Sixth Tone Shi Junjie, direttore di una casa di riposo a Shanghai. «Interagire con il personale e con gli altri anziani li rende molto felici». Ognuno fugge dalla solitudine come può. Se alcuni la cercano, altri non riescono a uscirne. «Nelle strade affollate di Shenzhen a volte vengo colpito dalla solitudine. Tralasciando la mia casa, e i miei soldi, mi sembra di non avere un motivo [per restare]», parola di Wang, un ragazzo dal nido vuoto.